Intorno ad un paio d’opere di Luciana Matalon

Intorno ad un paio d’opere di Luciana Matalon

“Dietro ogni cosa visibile esiste una realtà interiore e invisibile corrispettiva”, annotò Keats, in margine alla sua “Ode a Psiche”. L’asserto è condivisibile, anche da chi non si pone traguardi metafisici, anche da chi non vede in Psiche tra le braccia di Eros l’anima individuale accolta dal fuoco plastico dell’Intelligenza cosmica.

Il linguaggio dell’arte è per antonomasia polisemico, stratificato, leggibile in varie chiavi ed a livelli plurimi. La fruizione di un’opera d’arte non è un semplice atto voyeuristico: è un dialogo tra il riguardante e l’artista, attraverso l’opera, che solo nel costruirsi di quell’arco, in quel ponte, trova il suo compimento.

“Se il musicista non parte da un’idea, la sua musica è nulla, ma se egli parte da una certa idea e il suo più serio ammiratore vi trova un’altra idea, ciò non infirma affatto il valore dell’opera né il prezzo dell’ammirazione”. La considerazione di Cocteau è applicabile a qualsivoglia forma d’arte, rispecchiandosi nel concetto di opera aperta, di successiva formulazione e d’ormai incontestata accettazione. Proteiforme iperrealtà, l’opera rivive e si trasforma sotto ogni sguardo, riplasmata da differenti sensibilità e parametri culturali.
Dei dipinti di Mondrian colpiscono il rigore, l’armonia, il senso di perfezione, in cui s’intuisce la sublime matematica dell’aspirazione all’assoluto. Quanto conta per noi, oggi, ch’egli, creandoli, s’ispirasse alla Teosofia di Madame Blavatskij, quel pensiero che aveva contagiato tanto Rosmini quanto Kandinskij? Alle opere di Mondrian è ormai riconosciuto un valore universale e assoluto, oltre il qui-e-ora della loro genesi.

“Isola stellare” di Luciana Matalon, del 1970, è un’opera stimolante, ricca di spunti, proprio perché non vincolata ad una lettura univoca, come un messaggio propagandistico. La prima libera associazione mentale richiama il “Quadrato nero su fondo bianco” di Kazimir Malevič, celebre icona del Suprematismo eseguita nel 1913: “Identità di idea e percezione, fenomenizzarsi dello spazio in un simbolo geometrico, astrazione assoluta” (G. C. Argan). Per Malevič, “La nuova attività dell’arte dovrebbe consistere solo nel rivelare la realtà cosmica come realtà priva di oggetti”: le forme, irriconducibili alla realtà naturale, hanno vita autonoma, in un vuoto siderale neoplatonico. Ne deriva una visione dell’arte strutturalista, piuttosto che mistica.

Luciana Matalon non condivide il rigorismo teoretico del pur ammirato maestro di Kiev. La sua rivisitazione, sempre che tale intendesse essere, è ludica, se non ironica. L’Isola si presenta come un quadrato, di centotrenta centimetri di lato, ma possiede anche tridimensionalità: non si tratta di una tela, bensì di un pannello in tamburato, di consistente spessore.
Luciana Matalon ama frequentare le zone di confine: tra pittura e scultura, come tra pittura e disegno, scrittura, incisione, pirografia. Ama le tecniche miste e gli assemblaggi polimaterici, l’arte di memoria e gli stimoli interculturali, le grandi sintesi spaziotemporali e le commistioni tra tradizione e sperimentalismo, si tratti di linguaggi o di materiali. Una gioiosa anarchia creativa pervade e anima i suoi lavori, multiformi, ma in cui tout-se-tient.

Il nero del pannello, opaco e profondissimo, è in realtà palpitante di minuscole pagliuzze rosse: questo nero, sommatoria di tutti i colori, include una componente metallica… e frivola, come la porporina usata dalle ragazzine per i loro lavori scolastici così come per il loro trucco, in occasioni particolari. Questo nero si sdrammatizza, quindi, e freme. Ricorda il buio della notte, la notte cosmica, palpitante di luci puntiformi, estese all’infinito.

L’infinito dell’universo è un richiamo ricorrente nei lavori di Luciana Matalon, che non a caso esordì come spazialista, accanto e sulla scia d’illustri protagonisti della scena artistica internazionale. Il suo approccio è più incline alla narrativa fantascientifica che alle introspezioni misticheggianti. La sua fantasia si contamina di buon grado con il tecnologico e il futuribile. Ed ecco che il quadrante nordorientale nello spazio di questo dipinto-scultura s’apre ad accogliere un quadrato nel quadrato, dalla schiarita superficie scabra animata dall’aggetto di minuscoli crateri in fondo ai quali occhieggiano misteriosi catarifrangenti specchianti di rosso e di cromo o d’argento. Presenze inquietanti, testimonianze forse aliene, certo non naturali. Questo buio cosmico è punteggiato di vita, declinata in chiave tecnologica anziché biologica: pertiene ad Asimov piuttosto che a Kant e alla sua visione del cielo stellato. Ma anche l’Odissea di Kubrick viene evocata, con un richiamo a quel monolite nero, manufatto arcano venerato nei secoli, fin dall’alba dell’Uomo. Il pannello di Luciana Matalon lo ricorda, sorta di bifronte tra il criptico Kubrick e il supremo Malevič. Il grado d’inclinazione può essere determinato ad libitum da ciascuno di noi: nell’Uomo è la sintesi di tutto, e di tutti i contrari.

A qualche osservatore può accadere di riandare con il pensiero anche ad un altro monolite, un’antica pietra nera come il più scuro dei velluti, punteggiata di piccoli cristalli come rubini, una pietra che si racconta trafugata dall’Eden da Adamo ed incastonata dal Patriarca Abramo nell’angolo orientale di una costruzione quadrata al quadrato, come tale simbolo perfetto della totalità terrestre, del mondo materiale, dell’insieme dei quattro elementi, della stabilità del più saldo degli equilibri. Tale cubo, la Ka’ba, al centro della moschea della Mecca, è meta di fiumane di pellegrini.
La mente dei riguardanti zigzaga sbrigliata alla ricerca di altri monoliti, evocati forse preterintenzionalmente. Rintraccia così la pietra nera di Cibele, concreta manifestazione della Grande Dea Madre adorata dal popolo frigio, al quale fu sottratta per essere trasferita a Roma, sul Palatino: presenza reale nell’Urbe di un culto orientale, presenza mistica di una forza invisibile quanto incontrollabile.
Si riaffacciano anche i Betili, le pietre sacre venerate per secoli e secoli, come manifestazioni della presenza divina, come ricettacoli della potenza di Dio, dalle popolazioni arabe, prima della venuta del Profeta. E non si può che sorridere all’ironia della Storia, e della perenne infantilità dell’Uomo, ricordando che il loro nome di “pietre innalzate” deriva da Beih-el, la “Casa di Dio” di Giacobbe: quanto hanno in comune le tre “religioni del libro”, rivali, quando non pienamente nemiche, tra loro, come cuginetti rissosi!
Giacobbe, usando una pietra come capezzale, aveva dormito e sognato, ricevendo così la rivelazione del destino riservato da Dio alla sua discendenza. Quella pietra divenne un cippo sacro, a sua volta meta di pellegrinaggi.

Nel sogno, a quella pietra era appoggiata una scala, divenuta pertanto simbolo della comunicazione tra cielo e terra, tra Dio e l’uomo. Già in sé la scala è simbolo di ascesi, di perfezionamento di sé, di mete da raggiungere, di “ragion d’essere” che ciascuno può liberamente scegliere e tentare di perseguire.
Archetipo apodittico, la scala ricorre frequente nelle opere di Luciana Matalon, che l’ha scelta anche come emblema della Fondazione e del Museo che ha voluto creare. E’ protagonista, tra l’altro, di un paio di sculture bronzee di grande formato, in cui una figurina s’inerpica verso un globo sovrastante. Il faro guida il navigante, anche diretto altrove: il punto di riferimento può differire dall’obiettivo, e tuttavia serve da guida, anche attraverso i marosi dell’esistenza.

In “Nell’abside della mente cerco cieli solitari”, del 1997, la figura inerpicata, ignuda e priva di patine, percorsa longitudinalmente dalle schisi delle dissociazioni e delle contraddizioni umane, tende la mano verso un globo forse irraggiungibile. Sapere dove volgersi, verso cosa tendere, è già molto, nello sbando collettivo. “Mon astre”, la stella personale, è in grado di suggerire un orientamento, una direzione, un’ipotesi di lavoro, che può dar senso alla vita, e aiutare nelle avversità.

La scala di questa scultura, nella sua parte più elevata presenta gradini spezzati, diviene impraticabile. Lo sforzo d’ascesi che impegna la figurina è forse destinato a rimanere incompiuto, frustrato. Ma non si può, non si deve desistere. L’impossibile è meno frequente di quanto non si creda.

A chi sta scrivendo è accaduto di notare due ragazzini, undicenni, osservare e commentare quella scultura. “Ecco, più vai avanti e più tutto diventa sempre più difficile”, osservò l’uno, cui l’altro ribatté: “No, è che ad ogni passo ti devi costruire il gradino che ti serve”. Saggezza infantile, lezione di vita e d’ottimismo, invito alla speranza e alla fiducia, tanto nelle nuove generazioni quanto nell’eterna immensa capacità comunicativa dell’arte.

Pier Luigi Senna