Spazi infiniti e simboli inquietanti

Matalon: Spazi infiniti e simboli inquietanti

Quando Luciana Matalon esordisce, intorno alla metà degli anni ‘60, la sua attenzione è subito catturata dalle esperienze materiche di Alberto Burri. Le prime tele sembrano ingombre di materiali ricoperti da spesse ragnatele. L’accento però non cade sul recupero del passato. Nessuna nostalgia. Non c’è, da parte dell’artista, la volontà di salvare qualche antico reperto (anche se non mancano esplicite allusioni all’archeologia). Non si tratta infatti né di oggetti rivisitati né di angoli della memoria (anche questa più volte evocata). Ciò che questo lavoro mette in scena, fin dall’inizio, è il gioco della presenza e dell’assenza, della vicinanza e della lontananza.

E’ utile forse ricordare che Freud studiando il comportamento dei bambini nei primi anni di vita, osservò in un nipotino una mossa che lo incuriosì. Ogni volta che la mamma si allontanava da casa, il piccolo prendeva un rocchetto di filo e lo lanciava ai piedi del lettino dicendo fort (via) poi lo richiamava accanto a sé mormorando da (qui). Fu per Freud una rivelazione: agendo così, con il suo fort/da, il piccolo tentava di controllare l’ansia, di esorcizzare la perdita (seppur temporanea) della madre, allontanando qualcosa che subito riportava accanto a sé, precedendo cosi, e quasi preparando, il ritorno della madre. L’angoscia della distanza poteva dunque essere dominata con un gioco. Il significato originario di presente/assente, di vicino/lontano, era ora svelato. In un’opera del ’71 — appartenente a una collezione privata e quindi non in mostra — il movimento messo in atto dalla Matalon si potrebbe apparentare al gioco del fort/da: dietro agli strappi materici di quella che abbiamo chiamata una ragnatela appare un rosso, affocato, disco del sole. Ecco: nel metro per un metro e mezzo di «Cathédrale dans l’espace», lo spazio, chiuso nella più soffocante prossimità, apre poi su qualcosa di remoto dietro di sé.

Va subito aggiunto che l’elemento stellare emerso sarà poi soggetto a una lunga evoluzione, fino alle opere più recenti dove, comunque, si possono ancora osservare, qui e là, anche dei resti dell’elemento materico, da cui siamo partiti. Sono come delle matassine, dei piccoli ingombri in rilievo che prendono posto in ampie composizioni che fanno pensare a delle vedute aeree. Nel tempo, si è dunque conservato il principio oppositivo che abbiamo rilevato fin dai primi lavori di Luciana Matalon. Con questo non si vuole tanto sottolineare una coerenza (che in fondo non è necessario richiedere a un artista), quanto un filo rosso, un dato da seguire per l’entrata nel mondo della Matalon. Un filo che non si interrompe, e che vale quindi come una guida. Non è certo necessario procedere secondo una linea cronologica.

L’evoluzione di un lavoro, anzi, si misura meglio e più chiaramente se si parte dai risultati finali, per poi, da quelli, ritornare eventualmente indietro nel tempo. E questo vale tanto più per Luciana Matalon che, a partire dagli anni ’80, accosta all’attività pittorica quella plastica, secondo moduli talvolta complementari, talvolta del tutto autonomi. C’è comunque un passaggio, una transizione che è bene analizzare. Si tratta di una certa estensione e insieme di una semplificazione dell’elemento materico che interviene come trama di copertura e talvolta anche come dato strutturale, nei lavori a cavallo del decennio ’70-’80. E’ in realtà una filatura, un sistema di fili, dipinti o inseriti nella superficie dell’opera tramite collage. Le linee sembrano nascere da una rete, quindi dal dato materico (per esempio, in «Viaggio nel tempo» del ’77). Ma la loro estensione diventa strutturale, laddove l’artista se ne serve come giunzione fra un elemento del quadro e l’altro. Allora sembra che le parti stiano insieme per via di cuciture, di un certo numero di affrancature che stirano un lembo di tela, o una massa (come avviene, per esempio, in «Tragedy of Error», del ’76). Si arriva, così, per stiramento, alle forme oblunghe che si dispongono di traverso nei pannelli plurimi della serie «Archeologia del pensiero». Siamo agli inizi degli anni ’80. Qui si situa la svolta, il passaggio decisivo. Luciana Matalon si allontana progressivamente da quella che abbiamo chiamata la ragnatela. Al suo posto, nasce un affollarsi di elementi, inizialmente anche figurali, ma ben presto scritturali. I fili ora lasciano il posto a una grafia fitta e arcana.

Solo raramente qualche parola leggibile appare in mezzo alle distese sempre più ampie di segni organizzati come nelle antiche scritture sumeriche, assiro-babilonesi o ebraiche. Il discorso di Luciana Matalon si lascia ora alle spalle la storica ricerca informale e materica per avviarsi verso la zona della «comunicazione segnica» che ha segnato, in quegli anni, un ampio terreno di ricerca: dalla poesia visiva fino all’arte concettuale. L’elemento archeologico scritturale è evidente in una serie di tavole che paiono frammenti, reperti antichi, documenti corrosi e infranti dal tempo. La ricerca stellare — il dispiegamento, cioè, di spazi aperti a largo raggio, spesso organizzati come vere e proprie visioni aeree, altrimenti tagliati a spicchi come in improbabili mappe — non viene abbandonata. Ai fili però, anche qui, si sostituisce la nuova scrittura, che appare elemento vincente, tra i vari messi in campo.

La scrittura, dunque. Ma di cosa?
Qualche traccia naturalistica si fa strada nel groviglio segnico. Una tecnica per sovrapposizione, per strappo, presenta alcune superfici ricoperte da un’ampia fioritura ramificata. Il colore va intanto evolvendosi (con qualche puntata dove si sperimentano e si esasperano gli effetti) in funzione dell’elemento spaziale e costruttivo. Particolarmente funzionale l’inserimento di strisce rosse che ritagliano nella tela diverse zone, con un’accentuazione ora drammatica ora anche decorativa. Che sia come un fulmine o come un fiume, questo filo rosso che attraversa l’opera ne fornisce la vera orchestrazione, il punto di sutura e unificazione degli elementi. In taluni casi sono vere notazioni narrative che occorrono, proprio come nella recentissima sequenza dispiegata per alto («Nelle paludi del tempo, la lanterna rossa», del 2000) nella quale campeggia un faro, preceduto verso il basso da una cella sormontata dallo stesso tema della griglia e da altri elementi figurali forti.

Le più recenti opere — la sequenza «Diario luglio/agosto 2000» e «Nelle paludi del ricordo» — costituiscono un deciso superamento della componente astratta. L’instabile equilibrio fra indeterminatezza e astrazione, da una parte, e matericità e puro dato segnico, dall’altra, qui pare ormai rotto. L’esito è tutto a favore di una nuova fase ampiamente discorsiva — se per discorsivo si intende lo sviluppo ordinato (oltre che degli elementi sopra citati) di una quantità di dettagli desunti dalle sfere più diverse. Il particolare biografico è ora accostato a un dettaglio letterale e romanzesco, passando ancora e sempre attraverso quegli strati archeologici già tanto cari alla Matalon. Il collante rimane sempre, però, la scrittura. Anche qui con qualche differenza: si va infatti facendo sempre meno archeologica per svilupparsi invece come diario intimo, scrittura idiolettica, addirittura talvolta come calligrafia.

Qualche cifra, qualche conto, qualche notazione o elenco conducono sempre più in direzione di discorsi cifrati, personali e appunto diaristici. L’opera ne guadagna in varietà ed efficacia. Una nuova tonalità affettiva sembra farsi strada. Il cammino dall’astrazione alla narrazione è certamente lungo, ma qui pare davvero già quasi tutto compiuto. Della scultura va subito notato l’uso di materiali da fusione che segnano, senza equivoci, l’impegno di Luciana Matalon in campo plastico. L’elemento più vistosamente «pittorico» riportato sulle superfici metalliche è certamente quello scritturale che interviene come un’ombreggiatura, un tratteggiato esteso su molte delle linee che costituiscono la scultura. La tradizione della stele, ampiamente frequentata nel ‘900, trova, in Luciana Matalon, una lettura narrativa-antropologica. Per intendersi, in ogni stele è come se cadessero dall’alto, sovrapponendosi, rosoni, finestre, scale e pinnacoli. Ne risulta uno spazio impossibile, del tutto fittizio, simile (pur in altro registro) a quelle scale impossibili che fanno il tormento e la delizia di un costruttore di Babele come Escher. L’aspetto antropologico viene da qualche nota che si potrebbe chiamare indiana per intendere quelle strutture abitative scavate nella roccia e collegate, attraverso percorsi accidentati, da alte scale tipiche di certe tribù indiane dell’America centrale. L’aspetto rigidamente ascensionale di questi lavori non ne risente, però. Semmai quello che si evita è il troppo scarno, il rigidamente geometrico di certe colonne tutte punta. Qui, nella cascata di elementi quasi narrativi della Matalon (in «Obelisco», 1990, per esempio) ogni chiusura tecnologica è superata dalla fitta alternanza delle sovrapposizioni.

Più marcatamente antropologico — come subito indicato anche dal titolo, «Totem» — è un pezzo in bronzo, anche questo marcatamente ascensionale, che si fregia, oltre che della figura della ruota e della spirale, del profilo a becco di qualche antico animale cui appunto va riferito l’elemento totemico. Derivazioni mitico-magiche sono rilevabili in altre opere. In «Teotihuacan» è evidente la citazione di antichi luoghi di culto aztechi. La sfera parzialmente distrutta che sormonta la piramide ritorna poi in contesti anche molto diversi. In particolare, in una serie di volute spaziali, ruotanti intorno al corpo rotondo centrale. Una menzione particolare merita il «Casellario della memoria», un bronzo di notevoli dimensioni che nasce da una doppia lavorazione: da una parte vi si articola diffusamente il gioco della scrittura, ma dall’altra — ed è questa la maggior novità del pezzo — risalta come in un intarsio il rapporto dei pieni e dei vuoti, attraverso le tante, minuscole feritoie che si illuminano dello spazio retrostante. L’effetto mobile e raffinato si arricchisce con l’intersecarsi, nella zona centrale, nel punto in cui due superfici a 45 gradi si incontrano, dei denti dell’una e dell’altra, che si intrecciano. Lo spirito narrativo e vagamente magico che circonda le ultime opere pittoriche di Luciana Matalon ritorna in una scultura, recente, unica in mostra — ma parte di una serie non più in possesso dell’artista -, intitolata non a caso «Architetture oniriche». Qui, come ognuno può facilmente constatare, delle forme sospese a pochi fili suggeriscono una situazione abitativa (un castello?) di particolare lievità e felicità. Naturalmente il discorso sulla presenza/assenza e sulla vicinanza/distanza qui non ha ragion d’essere trattandosi di opere scultoree che per natura rivendicano una precisa consistenza nello spazio reale aperto davanti all’osservatore E’ forse utile però considerare come fra tanti «Viaggi nel tempo» e tante «Archeologie stellari” — tali i titoli di più di un’opera — la funzione della stele sia proprio quella di marcare un territorio, di tenere vivi nel presente eventi anche remoti nel tempo. E’ il presente in questo caso che rivendica il proprio spazio, anche se il passato costituisce la causa efficiente, la motivazione che ha fatto nascere quel segno particolare. Consegnata a tutti i presenti successivi, ogni stele tiene vivo e addirittura mostra, per quanto possibile, il frammento di passato che l’ha inviata fino a noi perché l’avessimo davanti.

Davanti a noi, ora concludendo, abbiamo l’immagine di trent’anni di lavoro di un’artista. L’immagine di una ricerca che non è stata insensibile ai vari movimenti del tempo che stava attraversando. Certo ha interpretato l’astrazione materica e qualche tratto dell’informale. Lo ha fatto però prendendosi rapidamente larghi spazi di autonomia. Molto ha contato per Luciana Matalon l’aver inserito su quegli inizi preoccupazioni e istanze anche molto diverse fra loro. Il lettrismo, la poesia visiva nelle forme più diverse, nelle varie impaginazioni grafiche o movimentiste, nate dai movimenti beat o da Fluxus, hanno portato a svolte inedite un lavoro che, come costante, si è sempre dato rigore compositivo. Anche i toni delle varie opere si sono attestati su un forte registro drammatico cui non manca, come altro polo, qualche fiammeggiante inserimento onirico e giocoso. La pop art è stata appena sfiorata per esempio nel caso in cui un miniabito dell’autrice viene incollato sulla tela. Con un effetto che però non ha nulla di massmediale. L’accentuazione drammatica si manifesta ulteriormente nelle forme aguzze delle sculture.

Che si tratti di una stele o di una tela, è evidente che l’obiettivo della ricerca rimane sempre per Luciana Matalon, la resa visiva di una situazione, di una intuizione spaziale ed emotiva, nella quale la funzione dell’autrice non è mai secondaria. Al di là delle estetiche della spersonalizzazione, quest’opera è volutamente firmata, porta cioè scritta – nei caratteri sempre ripetuti e variati di un alfabeto personale – i segni di una personalità e di un corpo.

Ermanno Krumm

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